Incontrare oggi a Roma le famiglie rom sgomberate da Casilino 900 vuol dire confrontarsi con delle persone “strappate” dalle loro case. Uomini e donne di tutte le età sradicate dal loro territorio, dalle loro cose, dalle relazioni tessute, sottratte alle routine che rendevano la loro vita “semplice “ e “quotidiana”.
Per comprendere meglio quali sono state le conseguenze di questa lacerazione che ha provocato il Piano Nomadi a Roma non solo sui luoghi ma anche sui corpi delle persone rom esiliate da quella che chiamavano casa, occorre riavvolgere il nastro, fin dal primo istante della ripresa o forse anche prima e partire dal significato che per l’uomo ha l’abitare.
Vivere e’ indossare un abito
Uomo, che in lingua romanì1 si traduce con “rom”.
Le parole “vivere” e “abitare” rimangono sinonimi nella maggior parte delle traduzioni in altre lingue, persino in quelle non occidentali. “Vivere” e “Abitare” dunque tradizionalmente si implicano a vicenda ; uno sottolinea l’aspetto temporale, l’altro l’aspetto spaziale dell’esistere.
Poche esperienze di vita sono significative per l’esistenza quanto l’abitare.
Ogni persona ha o dovrebbe avere un luogo proprio dove rivelare la sua identità, la sua natura e la sua appartenenza. Abitare vuol dire indossare. Vestirsi di un luogo presuppone identificarsi nello stesso.
L’identità dell’uomo presuppone l’identità di un luogo e questo deve essere scelto e non subìto. Orientamento e identificazione sono aspetti primordiali dello stare al mondo e non possono essere negati a nessuno.
Parlare di casa vuol dire parlare della propria storia. Il luogo diviene così la rappresentazione della casa, intesa come luogo da abitare. In quel preciso luogo, in quel preciso periodo, con quelle persone ci si sente a casa.
Ma cosa vuol dire “casa” ?
L’interpretazione che ciascuno, nella propria lingua, dà alla parola “casa” rivela la visione del mondo e ci permette di accedere, sebbene molto parzialmente, a una lettura culturale dello spazio e del tempo.
Anche in romani chib esistono molteplici nomi per nominare la casa.
" La casa è il luogo dove ci abito. E’ la cosa principale, diciamo. Ci sono tanti tipi di case "2
Esistono svariati modi di intendere la parola “casa” a seconda che si pensi all’uso che se ne fa, al tipo di costruzione, agli abitanti che vi dimorano o al luogo nella quale è ubicata. Semanticamente è una parola vaga e ambigua poiché la casa è un’immagine estremamente sfocata, che varia di persona in persona. E’ di certo la dimora delle nostre geografie culturali, e spiegarla ci definisce in un preciso spazio culturale e in un preciso luogo.
Raccontare della propria casa significa raccontarsi.
Kher è la casa che “appartiene” è una sorta di “nido umano”, come direbbe Tim Ingold3, un punto fisso nei movimenti di chi la occupa, un posto dove tornare. Nominare la casa ci costringe a parlare del modo nel quale si sta al mondo, si sceglie o si è costretti a vivere, a come si costruiscono le relazioni.
Quello che noi intendiamo chiamiamo “casa” dice chi siamo e da dove veniamo.
"Zara, cioè se la devo tradurre in italiano è tenda ma nella mia testa è casa mia "4
" ”Amaro kher” la nostra casa, o ”mo ker” la casa mia. Maggiormente si usa “amaro kher” perché da noi di solito ci vivono più persone, cioè non di solito. E’ sempre così da noi. Dipende anche dal punto di vista dal quale uno la vede la sua casa. Perché ad esempio si può chiamare “zara” perché ci sono dei rom che vivono anche oggi sotto le tende. La maggior parte di questi viaggiano ancora. Forse sono gli unici di noi che viaggiano ancora "5
Il concetto di casa non è per nessun uomo qualcosa di statico, a prescindere dall’abitare nomade o sedentario. Muta nel tempo, nello spazio, si modifica insieme a noi.
La casa, come specchio di chi la abita, si muove, muta, sta.
La kher prende i nostri odori, si plasma con i materiali che scegliamo, si tinge dei colori che ci rappresentano, si popola delle persone che decidiamo di accogliere. E’ noi.
Ogni uomo e ogni donna dovrebbero avere il diritto di abitare uno spazio e trasformarlo in casa a seconda delle proprie visioni di mondo. Partire dal riconoscimento dell’estrema soggettività legata all’abitare e alla scelta della casa diventa un elemento fondamentale per discutere poi della seconda dimensione che la casa rappresenta e cioè la dimensione sociale dell’abitare.
La casa, il luogo degli affetti
La dimensione comunitaria dell’abitare assume ancora oggi per la comunità rom un valore indissolubile. L’abitare, l’avere una casa è per i rom indissolubilmente legato alla famiglia. Casa e famiglia si confondono in un’unica entità : luogo degli affetti, prima ancora che costruzione.
" Beh, “casa” posso tradurla in due modi : se dico “Amaro kher”, voglio dire “La nostra casa” altrimenti dico ”Mo kher” cioè “La casa mia" "6
Un nido, un abito, ma inserito in un particolare spazio o luogo popolato dagli affetti. La casa si sposta dove si sposta il cuore, dove la famiglia sta, dove la famiglia cresce, muore e si ricrea.
" Kher sono io e la mia famiglia, non importa come’è fatta la casa, di legno, di cemento, di plastica "7
Campina, zara, container, roulotte, kher…, sono tutti modi di nominare rappresentazioni di costruzioni differenti perché la casa, quella vera, non è tanto identificata dal tipo di materiale che la plasma bensì nelle persone che in essa abitano.
" Puoi essere uno che gira, un giorno in Spagna, uno in Inghilterra ma poi sempre a casa tua devi arrivare. Arrivare a casa vuol dire trovare la pace, a casa tua "8
Questa forte coesione tra membri della stessa famiglia ha permesso loro di resistere alla violenza subita nella storia e ripresentatasi ancora oggi attraverso la politica degli sgomberi attuata dal Piano Nomadi.
La casa è la famiglia, gli affetti che la rendono intrisa di storia, di sofferenze, di eventi, di quotidiana normalità.
Casilino 900 è stata “casa” per tutti : luogo della famiglia, degli affetti, delle vite nate, cresciute e finite. Casilino è il luogo custodito purtroppo solo nella memoria e rievocato con dolore da tutte le persone incontrate. “Amaro kher”, la nostra casa : la casa della comunità, del vivere sociale, la casa dove a fatica dopo molti anni di lavoro tra i residenti e le istituzioni del territorio si erano costruite delle solide alleanze.
La violenza dell’espulsione
Poi lo strappo.
Uno sgombero violento, dissacrante, che non ha travolto solo tavole di legno e lamiere vecchie ma anche cose, ricordi, speranze, memorie, vite.
E poi ?
Le persone intervistate raccontano con una lucidità estrema ogni attimo che precede lo sgombero come se quel momento si fosse impresso indelebilmente nella memoria di ognuno di loro.
" Poi ti ricordi come ci volevano dividere con lo sgombero ? Questo a Salone, questo di qua, questo di là "9
Una vera e propria cronaca di una deportazione attimo per attimo, prima, durante e dopo.
Molti di loro non sono riusciti a vedere la distruzione in corso.
" No per carità, non potevo vedere che la tiravano giù, no. Siamo partiti due o tre ore prima. Ho caricato tutto in macchina "10
Altri erano al lavoro quando le ruspe e le forze di polizia hanno cominciato le operazioni.
" Sinceramente io mi trovavo al lavoro quando sono venuti e mi hanno buttato giù la baracca. Io proprio quel giorno mi trovavo al lavoro, mi ha chiamato mia moglie e mi ha detto : “Stanno buttando giù la baracca, la nostra baracca e ci vogliono portare a Salone !”. Lì mi ha preso un colpo, ho lasciato il lavoro, ho mollato tutto, mi son messo a correre a casa, per vedere se non mi rompevano almeno gli oggetti più preziosi che avevo "11
Molti bambini sono rientrati al campo dalla scuola con lo scuolabus e hanno assistito alla rovina del loro mondo abitato.
Vera violenza. La violenza sullo spazio diviene violenza sui corpi, sulle storie delle persone rom che vengono espulse dai territori urbani e stipate in luoghi periferici e malsani. Per conservare la loro romanipè (identità rom) e resistere a un paese che li considera ancora “ospiti sgraditi” da sempre i rom mantengono delle forme di separazione nette tra rom e non rom.
" La facoltà umana di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze apparentemente disperate, è stupefacente, e meriterebbe uno studio approfondito. Si tratta di un prezioso lavorio di adattamento, in parte passivo e inconscio, e in parte attivo "12
Questa separazione diviene una forma di resistenza, che si trasforma in chiusura. Resistenza che diventa strategia di sopravvivenza.
" C’è chi sopravvive. Ancora altre immagini di donne sedute sulle rovine della propria casa che stringono sempre qualcosa tra le braccia o di vecchi che trafugano tra le macerie. Dopo non ci sono più barriere perché, come ha spiegato Primo Levi, quando una persona perde tutto, perde sé stesso "13
Resistere e sopravvivere non significa stare bene. Vivere nel " villaggio attrezzato " di via di Salone o nel centro di via Amarilli, vuol dire disabitare .
" La mia casa è dove sto bene, non so dov’è ! "14
Lo spazio è un linguaggio. Lo spazio imposto a queste famiglie parla solo di politiche abitative ghettizzanti, di cancelli reti, muri e barriere per proteggersi dai nemici zingari.
Campi : uno spazio malato che fa ammalare i corpi
Il paese dei campi : uno spazio malato che ammala il corpo.
In questo vuoto, in questi luoghi di sopravvivenza si annidano malesseri, disagi, spesso tentativi di mantenere le proprie appartenenze in uno spazio che non le riconosce e le rifiuta.
L. Piasere, uno degli antropologi che più si è occupato della comunità rom e sinta in Italia, ha definito i rom come “popolo della resistenza”, rifacendosi alla definizione della storica francese H. Hasseo.15
" I popoli resistenza sono quelli la cui coscienza storica di sé risiede nella capacità di riformulare permanentemente ogni elemento di contatto tra sé e l’altro per elaborare una politica di sopravvivenza "16
Ma che prezzo ha nelle storie delle singole persone questo continuo duello per tenersi in equilibrio, per galleggiare anche in contesti assolutamente chiusi e avversi all’accoglienza ?
Lo sgombero subito dagli ex residenti di Casilino 900 a Roma testimonia per eccellenza l’ennesima situazione di violenza sui corpi e sullo spazio subita dalla comunità rom.
Una delle esperienze di malessere, che di certo accomuna tutte le persone intervistate nella ricerca, è l’aver perso la propria casa. La kher intesa come casa dove la famiglia sta non è stata distrutta, ma anche in questa lo sgombero ha provocato delle ferite e delle lacerazioni. Perdita e nostalgia sono i sentimenti che più si sentono nominare dagli ex abitanti del Casilino 900.
“Nostos” in greco classico significa “tornare a casa” e la nostalgia accompagna questo moto interiore. Per cercare di comprendere il significato complesso che la perdita della casa comporta Papadopoulos17, riferendosi agli studi che stava compiendo per i rifugiati, utilizza una definizione che si potrebbe applicare alla situazione in analisi. Egli parla infatti di “disorientamento nostalgico”. Questo stato di malessere include tutte le dimensioni che la casa incorpora.
Lo sgombero si trasforma in un malessere multidimensionale in coloro che lo hanno subito.
Spaesamento che provoca confusione. Il perdere i propri riferimenti spaziali e simbolici mette in crisi l’identità dell’intera comunità rom in oggetto.
Ernesto de Martino parla a tal proposito di " crisi della presenza " come disposizione che gli individui presentano quando lasciano un territorio considerato casa e si trovano davanti nuovi spazi sconosciuti e pieni di insidie.
Esistono linguaggi differenti di cultura in cultura e di persona in persona per manifestare il malessere e per nominarlo. Ogni cultura fissa tipologia, intensità e gravità dei traumi.
Per comprendere meglio la specificità dei malesseri raccontati dalle famiglie sgomberate da Casilino occorre fare una piccola premessa.
Le distinzioni fra mondo interno ed esterno, fra emozioni come atti non intenzionali, soggettivi da un lato e cognizioni dall’altro, fra eventi interiori ed azioni, fra disturbi affettivi e disturbi del pensiero sono costrutti culturali tipicamente occidentali : primo fra tutti quello che distingue natura e cultura.
" L’uomo non possiede solo un corpo. E’ composto di anima e corpo. Le abitazioni attuali non corrispondono sufficientemente ai bisogni spirituali degli abitanti "18
Per la comunità rom incontrata non esistono distinzioni tra la mente e il corpo, tra il male “dentro” e quello “fuori” : tutto è un unico. Anche la lingua madre testimonia questa indissolubilità tra mente e corpo così come tra anima e corpo. Il nominare la malattia impone la convocazione della lingua delle origini , il romani chib, lingua che cura, che consola.
Gi, l’anima è riportata come parte del corpo che rende manifesta la sofferenza provocata dalla perdita delle proprie radici territoriali, della propria casa.
Gi è casa, in un certo senso, e quando questa viene violentata tutto ne risente soffrendo.
" Quindi quando c’è la libertà di dove poter abitare, anche l’anima (gi) sta bene "19
L’anima sta bene quando ci si sente a casa, quando si è liberi. Anche il corpo di conseguenza, si nutre di questo benessere.
" Tanti ricordi dei nostri morti, lì al Casilino. Basta solo quello come ricordo. Tutta la nostra famiglia è rimasta là. Il ricordo della nostra famiglia è là. Tutti i ricordi dei nostri morti pesano. Tutte le anime, gi dei nostri familiari sono rimaste là "20
L’anima è la casa intesa anche come luogo della memoria, della storia che precede. Lo sradicamento subito dagli ex residenti di Casilino 900 è stato anche un allontanamento dall’anima dagli antenati che in esso sono morti, e in esso hanno vissuto.
Per i rom, l’anima dei morti rimane come proprietaria della terra abitata. Il territorio diventa così sacro in quanto custodisce la memoria di chi ci è vissuto.
" Mia nonna è morta lì. La sua anima e anche quella del cugino di mio padre. Le loro anime sono ancora là e io le penso spesso "21
L’anima quindi ha subito uno sradicamento multiplo : dalla terra, dagli antenati, dalla libertà, dalla memoria, dagli oggetti, dalle tradizioni.
" Come vuoi sentirti ? E’ una cosa che a me mi ha fatto come, boh, troppo male guarda. Io non me ne sarei mai andato da Casilino, c’erano i miei là, io lì ero ragazzino, là mi son sposato, ho avuto i miei figli, 8 figli nati tutti là, son cresciuti là "22
Il luogo di nascita è costitutivo della personalità, della mentalità, dell’identità dell’individuo.
I defunti per i rom non abbandonano mai del tutto il luogo abitato dai vivi. In questo modo una persona è legata alla sua terra (Casilino 900) perché essa è la patria della sua anima.
" Mi sentivo dentro tante cose, un casino, guarda. Non riuscivo a stare fermo qua, una cosa tremenda. Là avevi, puoi dire che lo spazio che avevi lo sentivi tuo, ci son cresciuto sopra "23
" Chi non dorme, chi non mangia…è una cosa che rimane per sempre ! "24
Molte persone, a seguito di questa diaspora hanno davvero presentato delle sofferenze manifestatesi nel corpo e nella mente e difficilmente risolvibili. La violenza simbolica che in loro ha esercitato lo sgombero ha avuto degli effetti inattesi e dolorosi. Non è stata solo una deportazione di corpi da un posto all’altro ma è stata anche una violenza sulla rappresentazione che dell’abitare aveva un’intera comunità.
Centinaia di storie che raccontano dolore.
" Il potere di agire sul mondo agendo sulla rappresentazione del mondo ", avrebbe detto P.Bourdieu.25 Attraverso infatti il controllo del "mondo degli altri" si esercita una violenza per molti invisibile ma non per questo meno profonda.
Lo sgombero da Casilino è diventata una sorta di esperienza traumatica sia a livello individuale che collettivo. Questo “spezzare” il vivere delle persone residenti ha provocato in molti una sensazione di estraneità a sé e al proprio mondo.
La salute dei minori rom e delle loro famiglie è fortemente interrelata alla salute dello spazio abitato.
L’articolo 32 della Costituzione considera la salute come un bene da tutelare in quanto " fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività ".
L’assenza di salute psico-fisica che la comunità rom sta vivendo non è quindi solo un problema di ordine individuale ma un interesse comune. L’accesso ai servizi negato attraverso la segregazione spaziale, diventa un indicatore di cittadinanza negata. Il diritto alla salute un privilegio per gli abitanti di via di Salone e del centro di via Amarilli.
Davanti alla narrazione di queste “malattie del ghetto”, vogliamo mettere in luce l’assenza di salute dei rom intervistati che non si manifesta soltanto attraverso malesseri fisici evidenti, ma si insinua attraverso sintomi psico-sociali che lentamente nel ghetto e dal ghetto stesso si radicano e si cronicizzano.
Possiamo concludere che le persone incontrate abitano quotidianamente il malessere.
L’unico rimedio che trovano alla sofferenza costante è la memoria che, da una parte ricorda loro la violenza subita nello sgombero, dall’altra ricuce l’anima attraverso il ricordo degli antenati e la forte appartenenza alla comunità rom.
" Se il passato può dar forma al presente, la memoria permette di strutturare il passato rispetto all’oggi. Ciò non significa però che si possa modellare il passato a nostro piacimento. Al contrario, proprio il fatto che non possiamo più avervi accesso in maniera referenziale e diretta una volta che è stato vissuto, ha come conseguenza che il passato può esercitare su di noi un’influenza che sfugge ai normali meccanismi del ricordo, dell’oggettivazione e dell’oblio "26
Aspettando il “disgelo” " il diritto alla casa non deve essere interpretato in un senso restrittivo che lo equipara, per esempio, al riparo fornito dall’avere semplicemente un tetto sopra la testa. Piuttosto dovrebbe essere visto come il diritto a vivere in sicurezza, pace e dignità, in ogni luogo "27.
Sicurezza, pace e dignità sono diritti negati ancora oggi per i rom sgomberati da Casilino 900. In questo loro “disabitare” anche il diritto alla salute viene violato.
Uomini, donne e bambini segregati e deumanizzati, migliaia di storie calpestate e sgomberate dallo spazio dei diritti. Il congelamento deumanizzante che la popolazione rom sta subendo a Roma non può essere reso silente e la mancanza di benessere non si deve più nascondere.
All’uscita dal buio si soffriva per la riacquisita consapevolezza di essere stati menomati.
"Non per volontà, né per ignavia, né per colpa, avevamo tuttavia vissuto per mesi o per anni ad un livello animalesco... lo spazio per riflettere, per ragionare, per provare affetti, era annullato. Come animali, eravamo ristretti al momento presente "28
Auspichiamo il tempo del “disgelo”, ossia quello del riconoscimento dei diritti che, come qualsiasi altro essere umano, anche ogni appartenente alla comunità rom reclama a gran voce.
Speriamo inoltre che questo report, che si propone come una piccola testimonianza di negazione del diritto a “star bene”, possa contribuire allo scongelamento e serva a molti per conoscere e riconoscere il diritto che ogni uomo e donna ha di abitare la propria storia.
" La mia casa è un cubo rosso, verde e bianco
con una foresta che cresce sulle pareti.
Dentro ho una televisione grandissima.
La mia casa è nello spazio "29