L’art. 13 della Convenzione internazionale dei diritti dell’uomo afferma la “libertà di movimento e di residenza entro i confini di uno Stato” e il “diritto di ognuno di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di farvi ritorno”.
L’equiparazione tra politiche securitarie e repressione dei flussi migratori è invece associazione ben nota in quell’Unione Europea che, nata sulle macerie di un muro, si erge oggi patria di nuove barriere. Ma, al di là degli slogan, l’insicurezza è chiaramente il contesto di partenza delle migrazioni, non ciò che esse determinano nei Paesi di arrivo.
L’insicurezza globale : il cambiamento climatico
Tra le tante forme di insicurezza, quella ambientale, determinata dai cambiamenti climatici e da altre forme antropogeniche di distruzione degli ambienti di vita e genesi di habitat ostili alla sopravvivenza delle comunità umane, rappresenta la più grave emergenza globale in atto. Una crisi sistemica che accomuna l’intera umanità e non riguarda solo i Paesi da cui partono i più consistenti flussi migratori. Nel suo rapporto 2018 su salute e cambiamento climatico, The Lancet ha definito il cambiamento climatico “un problema di salute pubblica globale”.
Allarme che la World Metereological Organization conferma con i dati del rapporto State of the Climate in 2018 : 35 milioni di persone colpite da inondazioni, 821 milioni di persone sottoalimentate a causa della siccità, 883.000 profughi interni per fenomeni climatici estremi. Tra il 2000 e il 2016 è aumentato di 125 milioni il numero di persone esposte alle ondate di caldo.
Le migrazioni ambientali sono il segno tangibile dell’interconnessione tra giustizia ambientale e sociale, tra crisi climatica ed economica ; l’effetto di un modello di sviluppo che infrange pericolosamente i limiti ecologici del Pianeta nonché quelli di giustizia sociale e intergenerazionale.
Il fil rouge tra ingiustizia sociale e ingiustizia climatica
Secondo i dati ONU del Global Resources Outlook 2019, elaborato dall’International Resource Panel, l’estrazione di risorse è più che triplicata dal 1970, compreso un aumento del 45 % dell’estrazione di combustibili fossili, passata da 6 miliardi di tonnellate nel 1970 a 15 miliardi nel 2017. Ai ritmi attuali, nel 2060, la domanda annua di risorse naturali salirà a 190 miliardi di tonnellate. Nel 2017 è stata di 92 miliardi di tonnellate e nel 1970 di appena 27. Nel periodo 1970-2017, la domanda media pro-capite di materie prime è aumentata da 7 a 12 tonnellate l’anno. Nel 2060 si potrebbe arrivare a 20 tonnellate. In questo scenario le emissioni di gas serra potrebbero aumentare del 43 % entro il 2060.
In un sistema economico lineare, la corsa all’estrazione di risorse è stata dunque l’input che ha spinto il PIL dai 18,9 trilioni di dollari USA nel 1970 ai 76,5 trilioni del 2016 (misurato a prezzi costanti del 2010).
La crisi climatica non è dunque un effetto ma una dimensione costitutiva dell’attuale sistema di produzione e consumo, perché quest’ultimo vede nell’iper-sfruttamento della natura non una conseguenza ma un elemento fondante.
La distribuzione geografica dell’estrazione di risorse è però mutata rapidamente negli ultimi 50 anni. Nel 1970, Europa, Nord America e Asia-Pacifico si spartivano in quote pressoché uguali un quarto del totale dell’estrazione mondiale di materie prime. Nel 2017, la regione Asia-Pacifico si è attestata da sola al 60 %. La distribuzione della ricchezza prodotta, la domanda e i consumi di materie prime seguono però tendenze diverse.
L’“impronta materiale” è un indice basato sull’utilizzo finale delle risorse ed è un indicatore strettamente correlato al PIL di un Paese, è dunque un indice dei consumi, ossia della distribuzione della ricchezza e dei beni prodotti attraverso i processi di estrazione. Restituisce in questo modo una mappa dei consumi e della domanda di materie prime basata sui luoghi di utilizzo finale.
Dal 1970 al 2017, la popolazione dei Paesi ad alto reddito è scesa dal 23 al 16 % della popolazione globale, eppure essi detenevano l’80 % del PIL mondiale nel 1970 e il 65 % nel 2016. In questi Paesi si consuma in media l’equivalente di 27 tonnellate pro-capite di materie prime, il 60 % in più rispetto ai Paesi a reddito medio-basso e oltre tredici volte il livello del gruppo dei Paesi a basso reddito (fermi a due tonnellate pro-capite annue). A fronte di ciò, mentre la quota delle risorse estratte nella regione Asia-Pacifico, la più popolosa del Pianeta, è passata dal 24 % al 60 %, in Europa e America del Nord è calata rispettivamente dal 20 al 10 e dal 19 al 10 %.
Dunque si estrae di più nelle aree più povere del Pianeta, in cui risiede la maggior parte della popolazione mondiale, ma l’“impronta materiale” disvela la sperequazione nella distribuzione della ricchezza prodotta. Stati Uniti ed Europa, i primi con meno di 400 milioni e la seconda con meno di 800 milioni di abitanti, sono al contempo fanalino di coda per popolazione e prime per consumo pro-capite di risorse, rispettivamente 20 e 25 tonnellate pro-capite annue. Seguono Asia ed America Latina con 9-10 tonnellate pro-capite annue, Europa Orientale e Asia Centrale con 7,5 tonnellate e Africa con meno di 3 tonnellate.
La nuova era glaciale e l’umanità smarrita
Ogni anno, i Paesi ad alto reddito consumano 9,8 tonnellate pro-capite di materie prime mobilitate da altre parti del mondo attraverso catene di approvvigionamento internazionali. Un fenomeno leggibile come sottrazione di risorse e imposizione di esternalità negative.
A pagare il prezzo più alto sono principalmente le comunità che vivono nei Paesi più poveri del mondo e che meno hanno contribuito al surriscaldamento del Pianeta. Le Piccole isole del Pacifico, responsabili di meno dell’1 % delle emissioni di gas serra, rischiano di essere sommerse dall’innalzamento del livello del mare. L’Africa, responsabile di appena il 4 % delle emissioni globali di gas serra, è tra i continenti più colpiti da desertificazione e insicurezza alimentare.
Nel 2017, secondo i dati del Global Report on Internal Displacement (2018), pubblicati dall’Internal Displacement Monitoring Centre, sono stati 30,6 milioni gli sfollati interni. Di questi, più della metà, 18,8 milioni, a causa di calamità naturali, soprattutto eventi climatici estremi : 8,6 milioni per alluvioni, 7,5 milioni a causa di cicloni. I Paesi più colpiti sono stati la Cina, le Filippine e Cuba. Al quarto posto si posizionano invece gli Stati Uniti. Ciò a riprova del fatto che nessun Paese oggi è al sicuro, nemmeno quelli più sviluppati.
Nelle seguenti aree geografiche, il numero di persone in fuga dalle conseguenze di disastri naturali supera quello di chi fugge da guerre e conflitti : Asia orientale e Pacifico (8,6 milioni contro 705.000), Asia meridionale (2,8 milioni contro 634.000), America (4,5 milioni contro 457.000), Europa e Asia centrale (66.000 contro 21.000). Nell’Africa subsahariana abbiamo 5,5 milioni di migranti interni dovuti alle conseguenze dei conflitti ma comunque 2,6 milioni di persone costrette a spostarsi a causa dei disastri naturali.
Quello a cui l’umanità sta andando incontro è dunque qualcosa di simile ad una nuova era glaciale che nei Sud del mondo esplica già i suoi effetti peggiori. Si pretende però che, mentre una parte del Pianeta antepone all’emergenza climatica la tutela della propria prosperità, i poveri della Terra sprofondino senza muovere un passo. Le migrazioni ambientali sono una responsabilità la cui negazione non ha più a che fare con l’incoscienza ma con un’umanità che ha smarrito sé stessa.
I perseguitati del colonialismo climatico
Proviamo a paragonare il Pianeta ad una grande azienda diretta dai Paesi a reddito medio-alto e in cui le materie prime e il resto della popolazione, intesa come forza lavoro, sono i fattori di produzione. La deregolamentazione ambientale, il superamento dei limiti ecologici della produzione e il tentativo di produrre come se i danni all’ecosistema non fossero una perdita da mettere a bilancio ma un costo da imporre ad altri, rientrerebbero nelle strategie tese a massimizzare i profitti. Possiamo anche pensare al classico esempio cui si ricorre per spiegare la “tragedia dei beni comuni” : un pascolo e un gregge. Nel momento in cui si decide di aumentare il gregge di una unità, se non c’è nulla da pagare per farlo, si avrà la certezza di ottenere un’utilità pari a +1 a fronte di un costo pari a 0. L’unico valore negativo dell’operazione consisterà infatti nella quantità di pascolo necessaria a sfamare la nuova unità, ricavata sottraendo piccole quantità di pascolo agli altri animali del gregge, che inizialmente non ne risentiranno, senza nessun costo per il padrone. L’unico momento in cui il proprietario del gregge si renderà conto dell’impossibilità di continuare a sfruttare il pascolo senza limiti, sarà quando lui stesso verrà danneggiato da questo tipo di comportamento, avendo condotto ad esaurimento il pascolo e perdendo ogni fonte di sostentamento per i suoi animali.
Con i cambiamenti climatici avviene qualcosa di molto simile : nonostante il deficit ecologico imposto al Pianeta, una parte della popolazione mondiale può mantenere invariati i propri livelli di consumo perché le conseguenze più estreme e distruttive di questo atteggiamento predatorio riguardano, per ora, solo alcuni luoghi del mondo e la popolazione più svantaggiata dal punto di vista socioeconomico o comunque una minoranza della popolazione mondiale.
In questo contesto, la difesa dei confini, l’atteggiamento repressivo nei confronti di chi migra, l’assenza di qualsiasi forma giuridica di protezione internazionale per i migranti climatici, diventano strumento di coercizione. Reprimere i tentativi di fuga di chi scappa dalle conseguenze dei cambiamenti climatici equivale ad imporgli i costi ambientali del benessere altrui. È una forma di coercizione operata in maniera fluida e non immediatamente percepibile, allo scopo di non adeguare l’attuale modello di sviluppo alle esigenze di equa redistribuzione della ricchezza prodotta e rispetto dei limiti ecologici del Pianeta. In questi termini, si può parlare di perseguitati climatici, vittime di una nuova forma di colonialismo.
L’OIM, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, definisce i migranti ambientali come “persone o gruppi di persone che, per motivi impellenti legati a rapidi o progressivi cambiamenti ambientali che pregiudicano le loro vite o condizioni di vita, sono costrette ad abbandonare le loro dimore abituali, o scelgono di farlo, temporaneamente o permanentemente, e che si spostano dentro o fuori i confini del proprio Paese”. Nessuna traccia dunque del perché queste persone stiano subendo le conseguenze di questi impatti ambientali. È questo approccio, incapace di categorizzare le responsabilità umane dei cambiamenti climatici e di altre forme di conflitto ambientale, che apre la strada all’identificazione delle migrazioni ambientali come volontarie, tenendole lontane dalla protezione internazionale riservata ai rifugiati dalla Convenzione di Ginevra.
Il “Global Compact for Migration” (GMC), l’accordo globale (non vincolante) dell’ONU per una gestione “sicura, ordinata e regolare” dei flussi migratori, approvato nel dicembre 2018, in riferimento al suo secondo obiettivo “Ridurre al minimo i fattori negativi e i fattori strutturali che costringono le persone a lasciare il proprio Paese d’origine” ha previsto una sezione specifica per i disastri naturali, gli effetti dei cambiamenti climatici e il degrado ambientale, riconoscendoli come cause di migrazione forzata. Anche qui però nessun riferimento a quali responsabilità umane siano alla base di questi fenomeni impattanti sulla vita delle persone.
I migranti ambientali pagano il debito ecologico di chi resta
L’impronta ecologica, misura l’area biologicamente produttiva di mare e terra necessaria a rigenerare le risorse consumate da una popolazione umana e ad assorbire i rifiuti prodotti. Si tratta dunque di un indice in grado di calcolare quanto territorio servirebbe ad assorbire l’impatto antropico di una comunità e quali Paesi sforino questo limite.
Questa prospettiva, insieme a quanto detto sulla possibilità di trasferire servizi ecosistemici dai luoghi di estrazione a quelli di consumo, ci permette di capovolgere l’approccio sulle migrazioni. Il tema non è più quanti esseri umani possano vivere su un determinato territorio e, quindi, se un Paese può o meno ospitare migranti. Piuttosto bisognerà chiedersi quanto territorio viene sfruttato da una Paese per sostenere una data popolazione e se questo sia più o meno in debito con altre popolazioni che soffrono gli impatti dello squilibrio ecologico generato. In quest’ottica, la chiusura dei confini equivarrebbe al rifiuto di redistribuire in maniera più equa la ricchezza prodotta ai danni di chi è stato ridotto a vivere in habitat ostili. L’equivalente di un conflitto teso a sottrarre territorio, futuro e possibilità di sopravvivenza ad una parte della comunità umana, solo che a combattere questa guerra non sono più solo eserciti ma capitali, aziende, investimenti e governi che continuano ad agire per preservare lo status quo, garanzia per un modello di sviluppo lineare fondato sul ciclo estrazione, produzione, consumo, emissioni, sulla concentrazione di immensi profitti e la socializzazione dei costi ambientali.
E anche in questo caso, i dati confermano che quanto appena illustrato è esattamente ciò che avviene. Sul totale dei rifugiati al 2017, l’84 % è accolto in Paesi in via di sviluppo, il 26 % nei Paesi più poveri in assoluto, meno del 10 % nell’Unione Europea.
La coincidenza tra Paesi ad alto grado di affermazione della democrazia e aree ad alto livello di consumo pro-capite di risorse naturali suggerisce che la possibilità per questi Paesi di garantirsi una più equa distribuzione della ricchezza, pace sociale e stabilità politica dipenda anche dall’imporre ad altri il proprio debito ecologico. Se una parte della popolazione mondiale ha diritto di restare nel proprio Paese, questo diritto è in qualche modo pagato da chi è costretto invece a migrare.
Non solo coloro che appartengono alle fasce più svantaggiate del punto di vista socioeconomico ma anche le generazioni future appartengono dunque alla categoria dei perseguitati climatici. Avviene dunque che il futuro del Pianeta sia determinato dalle decisioni di chi può permettersi di accordare implicitamente una preferenza al presente rispetto al futuro. Si tratta indubbiamente di una scelta etica perché fondata su una disparità tra generazioni e classi di individui.
Il 1° Agosto 2018, mai così presto, si è registrato “l’earth overshoot day”, il giorno dell’anno in cui l’umanità ha superato la soglia di risorse estratte che il Pianeta è in grado di autorigenerare in un anno. Oggi si consumano risorse pari a 1,7 volte la capacità rigenerativa annuale del pianeta Terra. Si può stimare che procedendo di questo passo, intorno al 2050, l’umanità consumerà ben il doppio di quanto la Terra produce.
Il fatto che i cambiamenti climatici siano sempre più un’emergenza globale indica però che queste tensioni non sono più arginabili con politiche volte alla protezione dei confini dei singoli Paesi. I limiti ecologici stanno mettendo in crisi il modello capitalistico proprio come l’incapacità di garantire giustizia sociale e equa distribuzione della ricchezza. Negli ultimi 60 anni il 40 % dei conflitti intra-statali è scaturito dall’accesso e dalla gestione di risorse strategiche (dati UNEP, From conflict to peacebuilding. The role of natural resources and the environment, 2009).
La scarsità indotta
L’allarme sull’aumento di conflitti generati dalla crescente rivalità per l’accaparramento di risorse sempre più scarse a causa dei cambiamenti climatici ha un grave vizio di fondo : guerre e conflitti dipendono innanzitutto dalla variabile politica e dall’organizzazione sociale, da come l’umanità sarà in grado di garantire accesso alle e redistribuzione delle risorse. Lasciar passare l’idea che il futuro sia irrimediabilmente segnato dalla carenza di risorse, significa dare per scontato che non ci possa essere altra strada che quella di continuare sulla strada di un modello di sviluppo insostenibile e di un’organizzazione sociale volta a risolvere in maniera conflittuale e non cooperativa i problemi imposti dagli impatti ambientali di tale modello di sviluppo. Scarsità e carenza sono in buona parte categorie socialmente costruite, e spesso, politicamente strumentalizzate. Più che la scarsità di risorse, sono fattori come il tipo di organizzazione sociale (più o meno consumista, più o meno inclusiva), il tipo di sistema economico (e l’utilizzo di strumenti redistributivi o meno), il tipo di politiche e il grado di democrazia nelle decisioni, che determinano la scarsità o carenza di risorse per una parte della popolazione mondiale. La condizione attuale è che i Paesi a reddito medio-alto consumano 13 volte più risorse di quelli a reddito basso. Secondo Oxfam, l’1 % più ricco del Pianeta detiene quasi la metà della ricchezza aggregata netta totale (il 47,2 %, per la precisione), mentre 3,8 miliardi di persone, pari alla metà più povera degli abitanti del mondo, possono contare appena sullo 0,4 per cento. Alla luce di questi dati, nonostante l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e la necessità di cambiare rotta, è chiaro che il problema non sia la scarsità di risorse ma come queste vengono distribuite.
Nel momento in cui sembra evidente la crisi del capitalismo Occidentale, il rischio è che si scelga la strada del potere economico senza democrazia. Piuttosto che porre rimedio ai limiti strutturali del sistema di produzione e consumo in termini di costi ambientali e sociali, la tensione è quella di ridurre le garanzie democratiche, concentrando la ricchezza nelle mani di pochi e affidando stabilità politica e pace sociale ad altre forme di controllo : supremazia politica, militare e tecnologica tesa all’accaparramento di risorse. Questo avviene a livello internazionale ma anche nei Paesi del cosiddetto Occidente sviluppato dove è possibile osservare la progressiva riduzione del welfare e l’aumento di tensioni sociali che non sarà possibile per sempre scaricare sullo “straniero”.